Body e Fat Shaming. Storia di un corpo maledetto
IL BODY SHAMING e il FAT SHAMING
La prima locuzione ha come significato letterale “un corpo di cui ci deve vergognare”La seconda è “la vergogna di un corpo in sovrappeso”.
La parola vergogna è la linea d sollineatura che evidenzia senza sbavature l’accanimento crudele di chi, senza pietà, deride e umilia una persona che ha, non per scelta, una pelle di un colore diverso, delle rotondità molto pronunciate, un corpo non armonico o fa uso di supporto correttivo..Una vera e propria forma di bullismo indirizzata verso chi ha “osato” non rispettare i canoni della bellezza che travalica i confini dell’età infantile/adolescenziale per strabordare ed inquinare la mente e l’anima di tutte le età .
Mio figlio mi dice spesso quando mi vede soffrire e a volte piangere di fronte alla crudeltà degli uomini, “Mamma ma tu non fai testo in questo mondo, sei un’irrinunciabile idealista” e continua scuotendo la testa un pò sconsolato come se fossi ormai allo stadio terminale “ per te dovremmo volerci tutti bene e nessuno dovrebbe fare del male, eppure come vedi non è così”
Lasciatemi chiedere, “Perché”?
Perchè noi che dovremmo riconoscerci l’un l’altro come esseri tutt’altro che perfetti e accettarci come tali rifiutiamo i difetti che ci caratterizzano?
Come terapeuta vengo a contatto quotidianamente con le persone e guardandole negli occhi e mi immergo in pozzi profondi di dolore, vergogna, smarrimento; ciò mi procura un senso di compassione (nel significato buddhista).
Mi ricordo che quando ero alle elementari ho dovuto mettere gli occhiali, “quattrocchi” era il termine più gentile che ricevevo.Tale esperienza mi fece vergognare di me stessa tanto che cercavo di non indossarli se non obbligata. Mi ci sono voluti anni per scrollarmi di dosso quel disagio.
L’onorevole Filippo Sensi, vittima di Fat Shaming
Essere vittima di Body o Fat Shamin è come salire sul banco degli imputati dove vieni giudicato colpevole per le tue “inesattezze fisiche” e condannato, seppur innocente, ad anni di derisione e crudeltà verbali.
Poco importano gli effetti devastanti che ne conseguono alla povera vittima che si sentirà sbagliata, inadatta, non meritevole di attenzione, che verrà isolata in modo tale che gli atti di bullismo verbale abbiano una maggiore eco specie quando la esponi al pubblico ludibrio pronta per essere lapidata, non con pietre ma con qualcosa che fa più male, le parole.Oggi, ad esempio, con il cyberbullismo ogni singolo anfratto della vita di ognuno può essere reso pubblico a tutta la comunità, per cui l’umiliazione non si ferma più a pochi compagni di classe o conoscenti ma dilaga come uno Tzunami.
A farne le spese sono, in gran parte, le donne e per ironia della sorte sono proprio molte donne a indirizzare le offese verso la loro stessa identità di genere.Parliamo d grandi numeri, in Italia il 68% delle donne, in Corea il 72%, in Indonesia il 60%, negli USA 80%, ecc.
Le conseguenze? Un profondo senso di vergogna di sé, frustrazione, tendenza ad annullarsi, il craving alimentare, depressione con conseguenze a volte infauste con atti di suicidio.Molte ragazze arrivano ad attuare il “comportamento di autoferimento” (autolesionismo) per aver sviluppato odio verso il proprio corpo.Provate, per un attimo, ad immaginare la prigione più stretta in si può essere rinchiusi, il proprio corpo.Quel corpo da cui si vorrebbe scappare, nemico dell’anima che lo abita, che costringe a vivere esperienze dalle quali non ci si può allontanare.
Cosa si fa a quel corpo che è l’unico vero nemico che viene identificato? Lo si dilania, lo si ferisce tanto lo si disprezza, lo si fa abbuffare per consolarlo, lo si fa cambiare forzatamente per silenziare tanta crudeltà.
E il senso di vergogna spezza l’Io della vittima, lo piega in se stesso per senso di protezione, lo fa perdere nelle pieghe del suo essere troppo imperfetto per la società.Quel che è peggio è che questi sentimenti dal momento che si incistano dentro procurano così tante ferite che difficilmente si richiuderanno se non con tanto coraggio di affrontarle.La mia opinione è che a far del male agli altri è chi soffre dentro di sé, si direziona il dolore sugli altri per silenziare il proprio, un modo di condividere il disprezzo che si ha per se stessi scaricandolo sugli altri.Non ho mai conosciuto una persona in pace con se stessa che facesse del male a qualcuno.Partendo dal fatto che nessuno è perfetto imparare ad accettare e successivamente innamorarsi dei propri difetti dà la forza per contrastare le maldicenze altrui.
E’ importante chiedere aiuto quando si capisce di non farcela senza per questo sentirsi sminuiti.
Mai arrendersi, le situazioni possono cambiare se dentro di sé c’è la speranza di riuscirci, magari non da soli, ma l’importante è comprendere che NON si è sbagliati solo perché qualcun altro ce lo dice, chi fa del male dimostra solo il grande smarrimento che ha dentro di sé, non bisogna farlo proprio.Per cui, quando ci capita di ferire qualcuno pensiamo al fatto che gli stiamo semplicemente proiettando il nostro mondo interiore.
Progetto Bambola di scrittura automatica
Ognuno ha nel cuore delle parole “non dette”che vorrebbe comunicare a qualcuno o a qualcosa.
Parole che girano dentro l’animo e non escono, tenute dentro a scrigni di opportunità mancate, timori, dimenticanze.
Tuttavia, ogni tanto riaffiorano.Scrivere lettere è un atto a cui la nostra volontà non pensa più, accantonato nel magazzino della mente come “desueto”; la comodità delle mail, le chat, le immagini, forniscono messaggi molto più veloci e immediati senza per questo richiedere chissà quale bravura letteraria.Eppure ha in sé in grande fascino, ha la capacità di dare pace, di chiarire idee, di chiudere un contenzioso con la Vita.
Questa è la ragione che mi ha spinto a dare vita al progetto che vorrei diventasse un libro ( il titolo nascerà dalle lettere), che coinvolge tutti noi.
Vorrei essere la vostra “Bambola di scrittura automatica” così da tradurre in parole ciò che sta nel vostro cuore e che vorreste comunicare a voi stessi, un familiare presente o passato, un amico o un nemico, un conoscente, oppure dedicata a un momento della vostra vita.
Tutto in assoluta riservatezza a meno che non siate voi a decidere di firmarla.E, semmai, portasse profitti, dividerli in parti uguali per ciascun autore della lettera.
Chi sono le Auto-Memory Dolls e come è nata questa figura?
Erano copiste ( chi lavorava scrivendo a macchina) con capacità compositive straordinarie che, in epoche ormai lontane, compilavano lettere per le persone che avevano la necessità di comunicare con qualcuno: un figlio in guerra, un’amata, un familiare, un politico, con chiunque ci fosse la necessità di comunicare.
La loro abilità di scrittura era la dimostrazione di quanto le parole siano potenti.
Facevano da trait d’union tra il mittente e il destinatario del messaggio con maestria sublime, descrivendo con profondità e acutezza ogni sentimento, emozione volesse essere trasmessa.Nella loro arte epistolare riuscivano a lenire il dolore nel cuore, lo smarrimento, trovavano i dispersi in guerra, costruivano alleanze, comunicavano con politici.
Oggi in un momento in cui siamo stati costretti a un’immobilità a cui non eravamo più abituati il tempo nel suo dilatarsi ha fatto riaffiorare, in molti di noi, i pensieri dimenticati, le emozioni sopite e mai come nel silenzio la loro voce si erge potente.Cogliamo l’occasione di esprimerli, per noi, per una persona a cui abbiamo voluto bene, per la Vita, sia esso un urlo straziante che un sentimento bisbigliato.
Semmai riuscissi nel progetto a voi rimarrà un ricordo come un album di fotografie di un momento importante della vostra vita.
Darwin e l’ereditarietà psichica
Darwin ci ha parlato di ereditarietà.
“A volte penso che la solitudine scorra nel mio sangue, qualcosa che viene tramandato di generazione in generazione” disse M..
Forse tutto quello che scorre nelle vene dei nostri genitori e dei nostri avi attraversa costantemente anche noi solo che non ne siamo consapevoli.
D’altronde noi siamo il frutto dei nostri predecessori e l’anello di congiunzione che passa il testimone ai nostri figli e ai figli dei nostri figli in una comunicazione perpetua e monocorde.
Certo da questo ragionamento traspare un senso di ineluttabilità.
In realtà vuole essere più una disamina cruda e realistica del substrato informazionale con cui dobbiamo relazionarci a ogni singolo respiro che facciamo in vita.
“Io non sarò mai come mio padre, sarò un compagno e un genitore migliore” disse M.
Ebbene, prima di dare ragione a M. ci sono passi fondamentali da compiere.Il primo è riconoscere che nello sforzo di non assomigliare al padre M. si sta comportando esattamente allo stesso modo.Questo è il passaggio più difficile, orgoglio e presunzione sono avversari di tutto rispetto.Dopo questo passaggio l’altro scoglio è accettarlo!
Bella lotta. vi immaginate l’IO di M. che incrina l’idea che ha di se stesso ammettendo i propri errori? Quando M. raggiiunge quel traguardo con estremo coraggio, perchè tanto ne serve, è diventato un eroe.
Dopo questa fatica ercoliana può dialogare con i suoi imprinting generazionali, farseli amici, ascoltare cosa hanno da dirgli ( a dispetto di quanto si voglia fare, sarebbe bene sentire i messaggi che il mondo interiore vuole comunicare) e costruire un ponte tra loro e quello che idealmente vorrebbe essere e diventare.
A ben pensare c’è sempre una o più tracce di diversa natura nel sangue di M. ma anche nel nostro che hanno origine passata con le quali dobbiamo fare i conti volenti o nolenti.
C’è una frase bellissima che porto sempre nel cuore per non dimenticarmi la mia responsabilità e la mia importanza, come essere umano.
“La nostra vita non è nostra. Da grembo a tomba siamo legati ad altri, passati e presenti e da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro.”
(Cloud Atlas)
Se ci si riflette bene abbiamo un’inclinazione a un determinato comportamento, un approccio alle situazioni della vita, un disturbo corporeo che sono concomitanti con quelle dei nostri genitori, dei nostri nonni e se, andassimo più a fondo anche dei nostri avi.
Un’informazione genetica ereditaria.
Insomma siamo uniti al nostro passato e lo siamo al nostro futuro generazionale .
Siccome io non credo nel fatto che ciò che è ereditario per forza si debba manifestare, malattie comprese, sono più dell’idea che tutto questo si possa conclamare si certo, può, altresì, rimanere silente e addirittura possa essere trasformato..
Se pensassi il contrario allora vorrebbe dire che sicuramente morirò di cancro solo per il fatto che i miei genitori hanno trovato la loro fine grazie ad esso.
Se alcuni tratti diventano manifesti e sicuramente lo diventano, allora ho fatto in modo che questo accadesse; ma come ho il potere di farli comparire ho la possibilità e la responsabilità verso me stesso e le mie generazioni future di fare qualcosa per modificare questa informazione.
Posso cambiare il mio atteggiamento, il mio modo di interpretare la vita, posso modificare come mi alimento e come nutro la mia parte “spirituale” e la parte “materiale”, posso imparare a non avere più le stesse paure o fragilità . Posso, partendo dalla mente, trovare altri paradigmi in modo tale che l’informazione venga modificata.
In questo modo arriverà un giorno in cui nel sangue di M. non scorrerà più solitudine, che pur nato povero con una famiglia piena di debiti M. non condannerà anche se stesso e le sue generazioni future a vivere una vita infelice .
Tutta la trasformazione avviene dentro la mente ( da non confondere con il cervello).
È necessario che M. abbia la forza di provare empatia verso se stesso, ammettere il vero e trasformarlo facendo spazio alla fiducia nelle proprie capacità, sviluppare la Fede nel dare per certo un risultato che per ora è stato solo ipotizzato, avere la capacità di vedere se stesso in un multiverso dove viene vissuta una vita totalmente differente e più appagante.
Solo una dimensione riconosciuta come vera dalla nostra mente più diventare reale nella vita che si sta vivendo.
La dolcezza negata.
L’amore è l’unico dolce che non ammala.
Seduto davanti a me una persona mi racconta di un problema relazionale con amici e colleghi, sa dottoressa “Soffro perché in ogni mio rapporto metto il cuore anche quando dovrei mettere la testa”, tra le varie domande chiedo “Per caso soffre di pre-diabete o diabete?”, risposta: “si, come fa a saperlo?”.Di converso, se una persona viene in studio per il diabete gli chiedo come sia la sua vita affettiva familiare, “mah, molto dolorosa”.Ecco la storia di un vuoto affettivo che si trasforma in malattia a cui è necessario rispondere su due piani d’intervento differenti, la psiche e il soma.Personalmente uso in tandem la terapia e la Medicina Tradizionale Cinese e BIofotonica.
Simbolismo psicosomatico del diabete.
Per comprendere a fondo questa patologia è necessario prendere in esame l’analogia tra il processo biochimico del diabete e quello del digiuno.
Le cellule del diabetico, non potendo far uso del glucosio da metabolizzare, si servono di altri nutrienti per compensare le necessità organiche, lo stesso che nei casi di mancanza di cibo.
Come tutti sappiamo l’elemento primario conosciuto dall’essere umano che da energia al corpo e nutre la parte affettivo-emozionale è il latte materno.
L’apprendimento che il bambino riceve nell’allattamento è l’appagamento dei suoi bisogni, cibo e la presenza della madre= amore.Nutrimento e relazione affettiva sono per cui inscindibili, lo si può notare molto bene nella valenza che diamo alla qualità e alla quantità di cibo che ingeriamo.Da adulti questa liaison profonda porta all’interpretazione del conflitto psichico di un genitore non sufficientemente affettivo.
Il bambino o l’adolescente ha un rapporto di forte dipendenza dalla madre che se è tendenzialmente contraddittoria nei suoi messaggi affettivi tanto da risultare altalenati tra momenti di grande dolcezza a quelli di forte giudizio e aspettative, può essere la causa scatenante del diabete infantile di tipo I.
Di fronte a questa ambivalenza comportamentale il bambino percepisce forte disagio per cui attua meccanismi di evitamento, nei confronti della madre,ipoglicemica=poco dolce.Questo particolare schema psichico influenzerà la vita della persona che sarà costretta a umanizzare tutte le relazioni, anche quelle lavorative per non creare conflitti e sentirsi giudicato.
Durante le fasi di sviluppo l’adolescente attraverso la malattia diabetica crea, nel suo inconscio, una madre che lo nutre, simboleggiata dall’iperglicemia. In questo modo il senso dell’affettività interiore verrà garantita.
Il diabete assume per cui 2 funzioni, il livello di glucosio=amore nel sangue rimane sempre alto, pur tuttavia, non potrà essere utilizzato per nutrire cellule e organi.Questo meccanismo assicurerà la permanenza ideale del genitore ma non permette alla persona di svincolarsi e affrancarsi da bisogno affettivo.Nel caso del diabete di tipo 2 l’indipendenza dalla madre=bisogno di affettività è più forte, l’ambivalenza materna o genitoriale è stata meno invalidante e questo ha permesso una maggiore autonomia dell’adolescente.Spesso, il diabete di tipo 2 si manifesta subito dopo il sopraggiungere di un’esperienza traumatica come un incidente, la perdita del lavoro, di una persona cara, una separazione.Le esperienze traumatiche si ricollegano alla memoria del vuoto affettivo infantile e così si riattiva la dipendenza ancestrale dalla madre.Se non curata questa forma di diabete attacca gli organi più importanti che psicosomaticamente rappresentano l’indipendenza dal genitore: gli occhi, i reni, il fegato, il pancreas e gli arti inferiori.
I soggetti diabetici hanno avuto un’infanzia molto difficile, hanno vissuto conflitti affettivi, separazioni precoci, subito maltrattamenti da parte di familiari.La malattia è in ogni caso il bisogno impellente di sentire dentro la dolcezza appagante della madre o di entrambi i genitori fondamentale per rispondere adeguatamente a tutte le situazioni della vita.
Ripeterò all’infinito che l’Amore è il terreno che nutre ogni forma di vita, l’Amore è la cura.
Con affetto
Romana
IL GIOCO, dialogo con l’esistente e conoscenza dell’esistenza.
Il gioco infantile è lo spazio dove depositare e intrecciare contenuti interni ed esterni e con il quale il bambino impara a conoscere l’esistente e ad interpretare l’esistenza.
E’ un impulso che nasce dal concetto del Principio di piacere il quale, col tempo, origina nel bambino una graduale organizzazione di eventi emotivi interni e realtà esterne interiorizzate.
Gli eventi interni ed esterni maturano e riflettono i loro significati nella manifestazione visibile del gioco.
Di grande importanza è il gioco imitativo attraverso il quale il bambino colloca le proprie emozioni e i propri pensieri nello spazio esistenziale.
Nel momento in cui comincia ad esprimersi col gioco, il bambino inizia ad acquisire consapevolezza del limite dettato dal suo stesso corpo e dal suo movimento.
L’attività ludica ha necessità di esprimersi fisicamente e verbalmente, diversamente rimarrebbe esclusivo appannaggio della mente e dell’immaginazione trasformandosi in gioco di fantasia o sogno.
Una forma pensata e vissuta senza i contenuti apportati dal confronto con la realtà.
Ciò che ha forma mentale rimane sospeso nel pensiero e manca di concretezza.
E’ un’attività presa molto seriamente dai bambini, se da una parte c’è un grande appagamento del principio di piacere (inconscio), che porta a perdersi nei ruoli imitativi, nella fantasia, sperimentando un espanso senso di soddisfazione, dall’altra è un insieme ben definito di azioni atte a conoscere il proprio ambiente esterno ed interno e coi quali il bambino si rapporta attimo dopo attimo e nel quale trova il modo di confrontarsi.
Il gioco e il divertimento vengono categorizzati nell’esperienza diversiva.
Il comportamento esplorativo porta ad esporsi in ogni evento che offra un buon livello di stimolazione premiante e piacevole, variabilità e afflusso di informazioni.
L’attività ludica è fondamentale al bambino per costruirsi significati, nel momento in cui si rappresenta attraverso la costruzione mentale la realtà personale.
Il modo in cui esperisce l’ambiente esterno nello spazio e nei confini fisici, e lo scambio delle esperienze ludiche con le rappresentazioni della realtà, così da utilizzare al meglio le capacità cognitive.
Con il gioco il bimbo sperimenta la mentalizzazione.
Dal momento in cui deve focalizzarsi sui propri e sugli altrui stati mentali, interpretando diversi ruoli, diviene l’attore consapevole dei pensieri degli altri, c’è una coscienza netta che quei pensieri non gli appartengono in quanto tutto è un gioco di finzione, “io faccio finta di essere te che interpreti un ruolo e hai determinati pensieri”.
A parte tutte le considerazioni sulle osservazioni che da tempo si fanno per comprendere che tipo di valenza abbia il gioco per il bambino, rimane quel piacere intoccabile per lui di potere interpretare molti ruoli e di vivere molte realtà parallele rimanendo perfettamente se stesso. Piacere che ci portiamo avanti anche da adulti.
INTERVISTA AL VEN.
Domanda-Può un essere umano comune arrivare a superare la visione degli opposti?
Teoricamente e a livello matematico con la Relatività di Einstein (spazio-tempo) e con la Meccanica quantistica con Heisenberg, Bohr, Stapp e altri, si è arrivati a riconoscere l’unicità di alcuni elementi come, per esempio, l’onda e la particella. Una mente umana, obbligata da limiti strutturali, cognitivi ed esperienziali, come può andare oltre il suo “conosciuto” per “vedere” lo sconosciuto? Se si, come può comprendere che sta davvero guardando “qualcosa” se la mente non la riconosce?
Risposta-La mente umana è in grado di andare oltre il conosciuto attraverso stati di coscienza che permettono di captare vibrazioni sottili indecifrabili sul piano della comunicazione convenzionale. Tali vibrazioni, per essere intese dalla mente ordinaria, si trasformano dapprima in simboli e successivamente in parole. In questo modo la mente non ri-conosce ma conosce e può comprendere.
Domanda-La realtà cos’è? C’è una realtà ultima uguale per tutti o ci sono molte realtà ?Perché noi non siamo in grado di vederla?
Il nostro stesso cervello tende ad ingannarci (in un certo senso); si organizza in modo tale da risparmiare energia, per proteggere se stesso da un’eventuale crash cerebrale utilizza scorciatoie e tecniche di risparmio energetico, ci prospetta conclusioni illusorie che ci presenta come realtà. Un esempio: la luce colpisce la nostra retina, i fotorecettori la interpretano trasmettendo informazioni al cervello e grazie a questo riusciamo a vedere. C’è però una zona cieca, priva di fotorecettori chiamata scotoma, un punto cieco. La domanda è: come mai noi non “vediamo questa area nera” nel nostro campo visivo? Il motivo è semplice: perché il cervello ha l’abilità di indovinare quello che dovrebbe essere in quella parte cieca e automaticamente la mette a fuoco. Certe volte sappiamo già cosa vogliamo vedere e la nostra neocorteccia trasforma questa aspettativa in una specie di realtà virtuale, il che significa che una parte del mondo che vediamo è solamente un’illusione. Tutto questo in un certo senso è sconcertante in quanto ci mette alla mercè del nostro stesso cervello. Come facciamo a scoprire il nostro punto cieco, a vedere la realtà che è davanti ai nostri occhi? La domanda che ti faccio non ricerca una risposta in campo neuroscientifico, quanto dal punto di vista della filosofia buddista, che vada oltre la nostra struttura fisiologica.
Risposta-Nella filosofia buddhista la realtà è considerata sotto due aspetti:quello relativo e quello ultimo.
La realtà relativa, detta anche realtà convenzionale o realtà che ammanta, si riferisce al modo con cui i fenomeni dell’esistenza appaiono in funzione della sensorialità e in relazione alla interdipendenza.
La realtà ultima o assoluta è data dallo stato delle cose, che sono composte, nascono da cause e condizioni e sono quindi prive di una esistenza autonoma.
La realtà relativa o convenzionale non è uguale per tutti, perchè ognuno percepisce le cose in conseguenza dell’efficienza dei propri sensi, della propria cultura e delle proprie esperienze. La realtà assoluta è invece libera da ogni concettualizzazione e concerne la vacuità dei fenomeni relativi.
IL GIOCO
Il gioco infantile è lo spazio dove depositare e intrecciare contenuti interni ed esterni e con il quale il bambino impara a conoscere l’esistente e ad interpretare l’esistenza. E’ un impulso che nasce dal concetto del Principio di piacere il quale, col tempo, origina nel bambino una graduale organizzazione di eventi emotivi interni e realtà esterne interiorizzate. Gli eventi interni ed esterni maturano e riflettono i loro significati nella manifestazione visibile del gioco. Di grande importanza è il gioco imitativo nel quale il bambino colloca le proprie emozioni e i propri pensieri nello spazio esistenziale. Nel momento in cui comincia ad esprimersi col gioco, il bambino inizia ad acquisire consapevolezza del limite dettato dal suo stesso corpo e dal suo movimento. L’attività ludica ha necessità di esprimersi fisicamente e verbalmente, diversamente rimarrebbe esclusivo appannaggio della mente e dell’immaginazione trasformandosi in gioco di fantasia o sogno. Diventerebbe una forma pensata e vissuta senza i contenuti apportati dal confronto con la realtà. E’ un’attività presa molto seriamente dai bambini, se da una parte c’è un grande appagamento del principio di piacere (inconscio), che porta a perdersi nei ruoli imitativi, nella fantasia esperendo un espanso senso di soddisfazione, dall’altra è un insieme ben definito di azioni atte a conoscere il proprio ambiente esterno ed interno e coi quali il bambino si rapporta attimo dopo attimo e nei quali trova il modo di confrontarsi. Il gioco e il divertimento vengono categorizzati nell’esperienza diversiva. Il comportamento esplorativo diversivo porta ad esporsi in ogni evento che offra un buon livello di stimolazione premiante e piacevole, variabilità e afflusso di informazioni. L’attività ludica è fondamentale al bambino per costruirsi significati, nel momento in cui si rappresenta attraverso la costruzione mentale la realtà personale. Il modo in cui esperisce l’ambiente esterno nello spazio e nei confini fisici, e lo scambio delle esperienze ludiche con le rappresentazioni della realtà, così da utilizzare al meglio le capacità cognitive . Giocando sperimenta la mentalizzazione, nel momento in cui deve focalizzarsi sui propri e sugli altrui stati mentali interpretando diversi ruoli, diviene l’attore consapevole dei pensieri degli altri, c’è una coscienza netta che quei pensieri non gli appartengono in quanto tutto è un gioco di finzione, “io faccio finta di essere te che interpreti un ruolo e hai determinati pensieri”. A parte tutte le considerazioni sulle osservazioni che da tempo si fanno per comprendere che tipo di valenza abbia il gioco per il bambino, rimane quel piacere intoccabile per lui di potere interpretare molti ruoli e di vivere molte realtà parallele rimanendo perfettamente se stesso. Piacere che ci portiamo avanti anche da adulti.
ARTE-TERAPIA
L’arteterapia, riconosciuta come una metodolgia di grande valore nel supporto terapeutico odierno, ha mosso i suoi primi passi già nella Grecia antica. La tragedia greca aveva, infatti, una funzione catartica e alla musica era attribuito il potere di ammansire gli animi inquieti. Freud è stato uno dei primi studiosi della psiche umana a dare grande risalto all’arte, lui stesso era amante della scrittura e della letteratura, tanto che diventare scrittore era un sogno che sperava di realizzare nel corso della sua vita. Fu nel 1942, per descrivere il lavoro di un insegnante e artista, Adrian Hill, che la parola “arteterapia” venne alla luce. I supporti musicali di Hill svolti dentro ad un tubercolosario erano mirati a ridurre l’ansia dei malati. Molti studiosi si sono, nel tempo, dedicati a vari studi sull’applicazione delle arti e della creatività per il miglioramento dello stato psichico dei pazienti. A parte Freud, abbiamo Melanie Klein, Hanna Segal, Bion, Winnicot, Kris, Chasseguet-Smirgel, Arnheim e molti altri. La creazione artististica, a seconda della Scuola di psicologia, è stata interpretata con diverse chiavi di lettura, questo ha dato modo di approfondire a largo raggio l’osservazione sulle strutture cognitive e percettive dell’uomo e i diversi modi con cui vengono esplicate le esperienze di vita.
Durante le sedute di arteterapia i pazienti sono impegnati nell’elaborazione delle emozioni, questo porta a un progressivo sviluppo di un legame sempre più profondo con il terapeuta. Questo richiede un coinvolgimento importante e un’appropriata esperienza clinica da parte del terapeuta.
Le difficoltà tecniche relative alla realizzazione di un prodotto figurativo sono alla base di un’attività cognitiva coordinata che permette al paziente, con l’aiuto del terapeuta, di costruire relazioni simboliche e uno spazio mentale in cui i problemi possono essere elaborati e non semplicemente scartati attraverso sintomi o altri comportamenti.
E’ importante per chi conduce il laboratorio di arte-terapia essere in posizione osservativa in modo da riconoscere il processo in atto così da facilitare il canale comunicativo con il paziente e per valutare le dinamiche e i contenuti profondi esplicitati nelle sedute.
Tutti gli approcci condividono l’importanza dell’osservazione durante la seduta di arte-terapia.
La produzione artistica può facilitare l’espressione prima, e l’elaborazione dopo ,dei vissuti angosciosi del paziente meglio della verbalizzazione, che per alcune persone, potrebbe risultare più difficoltosa.
Nella seduta di arte-terapia, l’operatore, non solo osserva i comportamenti del paziente ma anche le proprie reazioni.
Si tratta di un’azione attenta del guardare, un’azione attiva che porta ad uno scambio emotivo adeguatamente regolato per facilitare il processo di miglioramento.
In questo ambito l’osservazione partecipe è senza ombra di dubbio uno strumento fondamentale per individuare il materiale più adatto all’espressione di un paziente, e per avere un quando più completo che permetta una corretta lettura della produzione artistica.
In aggiunta l’osservazione serve anche a dare un feed-back continuo sul valore e l’efficacia dell’intervento e a misurare quanto i pazienti si sentano coinvolti da questo lavoro .
Una tecnica particolare di arte-terapia è la Messpainting, un disegno libero che incoraggia ad utilizzare il più possibile tutto il corpo, adatto a sviluppare la creatività e ad elaborare il proprio vissuto.
Questa tecnica si svolge nel corso di otto settimane, per 5 giorni alla settimana, i disegni devono essere eseguiti in 2 minuti e deve essere utilizzata tutta la gamma dei colori. Una volta alla settimana ci son incontri di gruppo per mostrare e discutere sulle produzioni di ognuno. La cosa più difficile è l’imparare a lasciarsi andare per tramutare le emozioni in colori e tratti,
Nelle produzioni grafiche la padronanza , la competenza esecutiva e cognitiva permette la realizzazione di prodotti sempre meno universali e sempre più particolari.
D’altronde quello che ci accumuna è il nostro bisogno di rappresentare il nostro patrimonio di conoscenze per comunicarle e trasmetterle.
UNA FOCA PER L’ALZHEIMER E NON SOLO
In un progetto che avevo presentato al Besta per l’accoglienza e il trattamento delle disabilità, insieme a tutta una serie di tecniche di training cognitivo e affettivo, avevo inserito metodologie che comprendevano varie attività mirate al miglioramento psico-motorio di persone affette da patologie, che colpiscono, a vario grado e in modo differente, la relazione tra cervello e movimento.
Sappiamo quanto sia importante l’affettività nella vita di ognuno di noi; in chi soffre di questo tipo di disagi l’aspetto affettivo-emozionale dell’esistenza è davvero fondamentale, è la causa precipua di sviluppo di motivazioni e di stimolo a compiere movimenti per loro molto complessi .
Per questo ho inserito nel progetto la pet-therapy, credo moltissimo in questo “canale” terapeutico perché tra persona e animale si instaurano dei linguaggi muti che hanno un grande potere comunicativo e trasformativo.
In determinate situazioni l’interazione con un animale, l’accudirlo, il coccolarlo, o semplicemente l’avvicinarlo, risulta difficoltoso se non addirittura impossibile.
L’AIST (Advanced Industrial Science and Technology) di Tokyo ha messo a punto un progetto che si è rivelato vincente, una foca robot chiamata “PARO”.
Questa bellissimo cucciolo di foca bianca equipara in tutto e per tutto l’animale in carne ed ossa.
Questo cucciolo robot è una svolta nelle terapie non farmacologiche utilizzate per i malati di Alzheimer e di demenza senile e nelle terapie psico-motorie di tutte le fasce d’età.
Alla doll-therapy , dove si utilizza una bambola speciale si aggiunge così anche la robot-therapy, con il cucciolo di foca artico Paro. Queste tecniche permettono di risvegliare emotività, attenzione e motivazione in tutte le persone di qualsiasi età che hanno difficoltà a relazionarsi con il proprio ambiente. L’accudimento, l’interazione affettiva, il tocco, la sola loro presenza rendono questi surrogati uno strumento estremamente valido per stimolare l’affettività, la cognizione, il rilassamento e la trasformazione di comportamenti aggressivi noti nelle demenze.
La doll-therapy e la robot-therapy sono metodologie che si possono utilizzare con successo anche per le terapie domiciliari. E’ sicuramente un valido apporto a chi, in casa, deve accudire persone con patologie che causano danni cerebrali e motori, in quanto è riscontrato che nell’interazione con la bambola o il cucciolo di foca, le persone si lasciano accudire molto più volentieri e risultato maggiormente ben disposte e rilassate.
Foto di proprietà di: multimedia.lastampa.it